La Roma ha vissuto una serata di legittima gioia, ma la Conference League non si è dimostrata un torneo in grado di regalare grandi emozioni
C’erano una volta le favole europee, come il Genoa che vinceva a Liverpool, sfiorando la finale di Coppa Uefa, o il Vicenza di Guidolin e il Cagliari di Bruno Giorgi, realtà di media classifica tra i confini nazionali, capaci di esaltarsi e trovare una dimensione internazionale neanche sperata dai propri tifosi.
E poi c’è questa Roma, che si ritrova a festeggiare una coppa europea al termine di una competizione che dovrebbe andarle stretta, per lignaggio, ambizioni, nomi schierati in campo.
Difficile capire il senso di questa Conference League, anche se il fatto che abbia dato felicità a una squadra e a una tifoseria è sufficiente per rispettarla e darle un valore. Perché la gioia è un bene così prezioso, che non va analizzata, va goduta e basta, senza farsi troppe domande – chissà quando ricapita.
Alla fine, c’erano un’altra sessantina di squadre che avrebbero voluto vincere il torneo, e non ce l’hanno fatta. Ce l’ha fatta la Roma, bravi, giusto festeggiare.
Dalla Mitropa Cup alla Coppa Uefa, fino alla Conference League
Detto questo, l’esperimento non ci sembra riuscitissimo. Era più bella la Coppa Uefa, punto. E la Coppa delle Coppe, neanche a parlarne. In una scala di valori, questa Conference League si piazza più o meno tra la Mitropa Cup e l’orrida Coppa Intertoto di fine millennio.
Un gradino sotto la Mitropa Cup, per la precisione, che nell’immaginario del tifoso occasionale anni ‘80 era almeno un’occasione per vedere all’opera, in un contesto europeo, squadre che altrimenti l’Europa non l’avrebbero mai raggiunta.
Attenzione, però, che quando si parla di Coppa Mitropa bisogna pure sciacquarsi la bocca, essendo in origine (parliamo degli anni ’30) un torneo paragonabile all’attuale Champions League, e anzi dovendo essere a buon diritto considerata come l’antenata della Coppa dei Campioni, che vide la luce solo negli anni ’50.
Una volta perduta l’originaria importanza, però, la Mitropa Cup divenne competizione di secondo piano e vetrina, come si diceva, per squadre che non potevano ambire ai più prestigiosi palcoscenici europei.
Si aveva, così, a partire dagli anni ’80, un albo d’oro che parlava di Udinese, di Bari, persino di Milan, quando il Milan era per un attimo diventato una squadra di secondo piano. In Mitropa, in quegli anni, per l’Italia ci andava la squadra vincitrice del torneo di Serie B. Pura poesia, che se avesse avuto maggior supporto mediatico avrebbe potuto dimostrare meglio il suo potenziale in termini di emozioni, se non di spettacolo.
Conference League, una competizione senza troppo fascino
Emozioni che, invece, è difficile cogliere, guardando il pur festoso epilogo della Conference League.
Insomma, con tutto il rispetto per la legittima gioia e soddisfazione di chi l’ha vinta, questa competizione manca di un contesto credibile, di fascino, di un senso vero e proprio.
La vecchia Coppa Uefa, così come in parte l’attuale Europa League, era un calderone infernale dove finivano tutte le grandi squadre, a parte quelle che avevano vinto i rispettivi campionati nazionali, e vincerla rappresentava un’indiscutibile prova di forza.
Chi vince la Conference di cosa dovrebbe fregiarsi, una volta esaurita la sbornia da esultanza? Chi se ne frega, sarebbe la risposta più giusta, perché come detto alla gioia non si domanda.
Ma istituire un trofeo per chi non è riuscito ad arrivare sesto, quando il sesto partecipa a sua volta a un torneo per chi non è riuscito ad arrivare quarto… beh, il fascino è un’altra cosa. Vedere grandi squadre che hanno sbagliato la stagione precedente mostrare i muscoli contro malcapitate avversarie di campionati minori non ha molto senso.
Quest’anno abbiamo avuto Roma-Feyenoord, che suona anche bene, ma magari chi l’ha inventata pensava più a un Sassuolo–West Ham. Chissà, si potrebbe creare un torneo per ottave che non sono riuscite ad arrivare settime.
Marco Sicolo – Bgame News