Guai per Lautaro: condannato dal tribunale per licenziamento della babysitter

Il giocatore licenziò la ragazza per aver superato i giorni di malattia, ma poi è deceduta e i suoi eredi hanno impugnato la causa.

Questa volta è Lautaro Martinez nell’occhio del ciclone. Ma stavolta non si parla di calcio, bensì di un caso che lo ha coinvolto nella vita privata. Questo quanto accaduto: martedì 11 ottobre, Lautaro Martinez è stato condannato dal tribunale del lavoro per il licenziamento della sua babysitter, definito “ingiusto” dal giudice. La ragazza, anche lei argentina di 27 anni, era stata assunta da Lautaro e da sua moglie Agustina, ma è deceduta a gennaio 2023 per una malattia incurabile scoperta durante i giorni di lavoro a casa Martinez. Tuttavia, dopo otto mesi dall’assunzione, la ragazza ha dovuto recarsi in ospedale per ricevere le cure necessarie. Durante la degenza, però, è arrivata la lettera di licenziamento da parte del calciatore, dove le veniva contestato il superamento del numero di giorni di permesso per malattia. Il licenziamento è stato subito impugnato dagli avvocati della ragazza, ma dopo alcuni tentativi di conciliazione bonaria le parti non hanno trovato l’accordo. Nel frattempo, purtroppo, la ragazza è morta e la causa è passata ai suoi eredi. Alla fine, il tribunale ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento e ha condannato Lautaro Martinez e sua moglie al versamento di una somma in favore degli eredi della ragazza e al pagamento delle spese legali. Ma il calciatore non ci sta e sempre nella giornata di martedì ha pubblicato una replica, tramite social, molto dura. Ecco il testo integrale, pubblicato in spagnolo: “Ho deciso di restare in silenzio per molto tempo per rispetto verso una famiglia che nei nostri confronti non lo ha mai avuto, ma non permetto che qualcuno infanghi la mia. Abbiamo assunto una persona che era già malata, amica da una vita, fin quando purtroppo non ha più potuto lavorare a causa della malattia. Dopo aver fatto tanto per lei e per la sua famiglia – continua l’attaccante – ci siamo fatti carico dei biglietti per l’Italia, abbiamo messo i letti vicini quando l’ospedale era al collasso e l’abbiamo aiutata nelle cure, pensando anche all’alloggio per i suoi genitori. C’è da dire che abbiamo dovuto convincerli a venire a prendersi cura della figlia che stava morendo. Dopo aver dato tutto, loro hanno aspettato che la figlia fosse in punto di morte e che non fosse più lucida per tentare di prenderci dei soldi approfittando della situazione. E non solo: anche dopo la sua morte hanno continuato a insistere, ma è andata male. Allora, dopo l’emissione della sentenza dove non hanno potuto scucirci un euro perché il tutto non corrispondeva al vero, fanno questo per infangarci? Che razza di persone bisogna essere per cercare di spillare soldi approfittando della morte di un figlio? Mi fate schifo, andate a lavorare”. Antonhy Macchia, legale di Lautaro Martinez, ha precisato ulteriormente la situazione in un comunicato: “Non corrisponde al vero che il sig. Martinez abbia interrotto il rapporto di lavoro domestico allorquando la lavoratrice risultava ‘in punto di morte’, come emerge dalla lettura degli articoli che circolano in rete. Il licenziamento le è stato comminato sei mesi prima del decesso”. E ancora, si legge nella nota: “E’ stata la stessa babysitter a chiedere di essere licenziata per poter fruire delle retribuzioni differite e del Tfr in ragione della determinazione di voler fare ritorno nella terra natia, l’Argentina. Inoltre, non è vero che il signor Martinez non abbia voluto conciliare e porre fine ad un contenzioso in cui lo stesso è stato convenuto, posto che – ed è verbale – il mio cliente si è reso financo disponibile ad elargire gli importi indicati dal Giudice del Lavoro del Tribunale di Milano (ben maggiori rispetto a quelli poi indicati nel dispositivo della sentenza dallo stesso magistrato) ad un’associazione benefica da scegliersi a discrezione del giudicante e che l’accordo non è stato possibile per il rifiuto degli eredi della signora e dei suoi procuratori”.

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