La giovane pattinatrice russa, prima accusata di doping e poi crollata emotivamente nella gara individuale, è l’emblema di un concetto sbagliato di sport: il caso Valieva, spiegato
Siamo italiani, siamo cresciuti in massima parte con una cultura di stampo occidentale, e quindi ci viene facile criticare, magari in modo un po’ superficiale, i modelli di comportamento che vengono da altre parti del mondo.
Ma quello messo su dalla Russia in queste Olimpiadi di Pechino sembra davvero uno spot al contrario: una serie di decisioni, atteggiamenti e reazioni che sembrano venir fuori da un film americano, dove i russi sono sempre i cattivi, e che danno conferma dei più classici stereotipi con cui questo Paese viene descritto.

Ciò che è successo nel pattinaggio artistico è la sintesi perfetta di tutto questo: dalla campionessa bambina (Kamila Valieva) che guida uno stuolo di atlete perfette o quasi, alle accuse di doping, al crollo emotivo e tecnico delle campionesse, fino alla ciliegina del gelido rimprovero dell’allenatrice che non contempla la sconfitta.
Insomma, se non siamo ai livelli di Ivan Drago, poco ci manca.
Valieva, le accuse di doping alle Olimpiadi di Pechino
Per chi non avesse seguito la vicenda, urge rapido riassunto.
Kamila Valieva, da Kazan, classe 2006 (!) è la tipica campionessa predestinata, che in giovanissima età è già in grado di dettare legge senza pietà nella propria disciplina, il pattinaggio artistico su ghiaccio.
Arriva a Pechino da favorita e puntualmente trascina la sua squadra alla vittoria nel Team Event, ma la premiazione viene improvvisamente rinviata: c’è un problema di doping, e riguarda proprio un campione prelevato alla Valieva in una gara dello scorso dicembre.
La sospensione immediata pare inevitabile, invece il TAS (la Corte arbitrale per lo sport) decide che Kamila potrà partecipare, sub iudice, anche al concorso individuale.
Le condizioni imposte, però, stridono con l’atmosfera gioiosa che dovrebbe avere un simile evento: la premiazione del concorso a squadre non avrà luogo, e neanche quella della prova individuale, se la Valieva dovesse classificarsi tra le prime tre. Questo perché le medaglie verranno assegnate solo al termine dell’iter di accertamento relativo al possibile caso di doping della russa.
Le cadute e la reazione dell’allenatrice
Al di là della correttezza di una simile decisione, non si creano certo le condizioni ideali per partecipare per la piccola campionessa, che, ricordiamo, ha appena 15 anni.
E puntualmente, Kamila crolla. Nel programma corto finisce al primo posto, ma scoppia in lacrime per la tensione al termine dell’esibizione. Nel successivo programma libero, ultima decisiva prova dell’evento individuale, non ne indovina una, scivola, cade, sbaglia e cade ancora, rinuncia a effettuare i salti inizialmente programmati e chiude ancora in lacrime, emotivamente distrutta.

In tutto questo, la sua allenatrice Eteri Tutberidze non trova di meglio da fare che aspettare a bordo pista la sua diletta campionessa sconfitta e, anziché abbracciarla come farebbe chiunque, improvvisarle su due piedi e in diretta mondiale un bel processo per direttissima, chiedendole con tono perentorio di spiegarle perché avesse mollato in quel modo.
A una ragazzina di quindici anni, che aveva appena visto sfumare il proprio sogno e che aveva ceduto a una simile pressione.
Tutberidze avrebbe poi continuato a catechizzare la propria atleta nelle fasi di attesa del punteggio (attirandosi così le successive critiche del presidente del CIO Bach, che ha definito il suo comportamento “agghiacciante”), salvo lasciarsi andare di tanto in tanto a qualche inevitabile, timido abbraccio.
Valieva e Trusova in lacrime nel pattinaggio artistico alle Olimpiadi
Lo psicodramma russo, peraltro, ha anche altre facce. Come quello di Aleksandra Trusova, 17 anni, che grazie alla débâcle della connazionale si ritrova sul secondo gradino del podio.

La cosa non sembra darle troppa soddisfazione, però, e anche lei crolla e piange, ma le sue sono lacrime di rabbia, è furiosa. Non le va giù il secondo posto, l’ennesimo, dice, “le altre vincono e io non ci riesco neanche stavolta” (per la cronaca, anche la prima classificata è russa, stessa palestra di provenienza delle altre due).
Insomma, se l’importante doveva essere partecipare, evidentemente nessuno ha mai tradotto in russo le parole di De Coubertin.
Caso Valieva, perché la Russia si chiama ROC
In tutto questo va ricordato, particolare non secondario, che la Russia partecipava a questi Giochi (come del resto alle scorse Olimpiadi estive di Tokyo) sotto il nome di ROC, che altro non significa che Comitato Olimpico Russo.
Agli atleti russi, cioè, è consentito partecipare a questi Giochi, ma senza poter difendere i colori del proprio Paese, o ascoltarne l’inno nazionale in caso di vittoria.
Perché? Perché la Russia, come Paese, è stata formalmente squalificata dai Giochi Olimpici in conseguenza della scoperta di un sistema di doping di massa sui propri atleti negli anni immediatamente precedenti alle Olimpiadi di casa del 2014.
Insomma, c’era già un bel biglietto da visita.
“Evidentemente, finora non siamo riusciti a ottenere la loro attenzione”, ha commentato sconsolato il fondatore dell’Agenzia Mondiale Antidoping, Dick Pound, riferendosi alla lievità di tale sanzione. “Forse è arrivato il momento di escludere del tutto gli atleti russi dalle Olimpiadi”.
“Non c’è un’atmosfera sana in Russia, e non è un’atmosfera sana quella in cui gli atleti del resto del mondo devono gareggiare contro i russi”, ha proseguito Pound, che è stato anche vicepresidente del Comitato Olimpico.
“Sapete” – conclude – “il governo russo non sa spiegarsi perché nessuno vuole giocare con loro. E la risposta è semplice: perché imbrogliate!”
Più chiaro di così.
Marco Sicolo – Bgame News