Dagli allevamenti di polli di famiglia alla consacrazione nel calcio, il croato ha fatto la fortuna dei club per cui ha giocato. Tutto su Perisic, dall’infanzia all’Inter
Ha dominato la finale di Coppa Italia contro la Juventus, prendendosi la scena prima con l’imperioso stacco di testa con cui ha propiziato il rigore del pareggio e poi siglando la doppietta decisiva nei tempi supplementari, che ha spezzato le ambizioni dei rivali e ha regalato il trofeo alla sua squadra.
Per Ivan Perisic questa partita ha il sapore della definitiva consacrazione, non solo come campione – quello era un dato ormai assodato – ma anche come leader e trascinatore della sua squadra, proprio lui, che è spesso stato oggetto di critiche per scarso impegno nel corso della sua carriera.
Perisic, i primi calci e l’azienda di famiglia
Quand’era piccolo e tirava calci al pallone per strada o in riva all’Adriatico, nella sua Omis, gli amici lo chiamavano Koka, la gallina, perché suo papà Ante aveva un allevamento di polli e da lì la sua famiglia campava.
Ivan calciava talmente bene che se ne accorsero pure nel capoluogo, e cominciò a crossare su un prato verde, quello dell’Hajduk, la squadra di Spalato, dove passò tutta l’adolescenza nelle giovanili, con il sogno di giocare in prima squadra.
Solo che poi gli affari cominciarono ad andare male, e al signor Ante serviva moneta liquida. Venne buona, allora, l’offerta da parte dei francesi del Sochaux, che offrì a Perisic il suo primo contratto da professionista, con una paga che gli permise di mandare un po’ di soldi a casa, quelli che servivano a ripianare i debiti dell’azienda di papà e a rimettere in sesto le casse di famiglia.
I primi successi e le incomprensioni con Jurgen Klopp
In Francia non giocò neanche un minuto, nonostante le buone premesse, e fu dirottato in Belgio, dove qualche mese in una squadra di secondo piano gli bastò per mettersi in luce e per conquistarsi l’ingaggio da parte del Brugge.
Un paio di stagioni a tutta, il titolo di capocannoniere nella massima serie e il gioco è fatto: Perisic entra nel calcio dei grandi, ingaggiato per 5 milioni di euro dal Borussia Dortmund di Jurgen Klopp.
Sembra tutto pronto per il decollo definitivo della sua carriera, eppure col vulcanico coach dei gialloneri le cose non vanno sempre per il verso giusto. All’ennesima panchina Ivan sbotta, si sfoga con i giornalisti di casa sua e non tiene conto che un’intervista in croato si può anche tradurre in tedesco.
Quando Klopp viene a sapere delle lamentele della sua estrosa, ma incostante ala, non si trattiene: chi si lamenta con i giornalisti è come un bambino, dice, me lo venga a dire in faccia. E si impegni di più, dice, lavori invece di lamentarsi.
Insomma, l’amore è finito e il Wolfsburg ascolta tutto, affacciato alla finestra del mercato invernale. Coi lupi, Perisic disputerà tre buone stagioni, aiutandoli a conquistare la prima coppa di Germania della loro storia e mettendoci in mezzo un Mondiale in Brasile con la sua Croazia, dove fa a fette il Camerun con il suo talento, senza però evitare l’eliminazione ai gironi per la sua squadra.
Saprà rifarsi quattro anni dopo, quando sarà tra i trascinatori dei biancorossi fino alla finale di Mosca contro la Francia, aggiudicandosi la piazza d’onore con i compagni di una generazione clamorosa, da Modric e Mandzukic, fino a Brozovic e Rakitic.
Ivan Perisic, il talento dell’Inter e l’esperienza al Bayern Monaco
Il resto è storia dei giorni nostri, con il Perisic che conosciamo, anzi: con i due Perisic che abbiamo visto all’Inter. Il primo, estroso e un po’ indolente, generoso nel regalare gol e assist al suo pubblico ma altrettanto avaro nel sacrificarsi per la squadra.
L’arrivo di un tipo tosto come Antonio Conte in panchina sembra la soluzione dell’enigma di un giocatore dalle due facce. E infatti Conte non vuole vederne neanche una e lo spedisce in prestito al Bayern Monaco, come un Icardi qualsiasi.
L’Inter disputa il suo onesto campionato, finendo seconda alle spalle della Juve di Sarri, e Perisic fa saltare il banco con i bavaresi, vincendo tutto ciò che c’era da vincere: campionato, coppa di Germania e Champions League, un bel triplete, tanto per restare in tema nerazzurro.
E infatti in nerazzurro ci torna, l’anno dopo, non senza qualche rammarico, sentendosi tradito da una squadra a cui ha dato un apporto decisivo: lui c’era il giorno in cui ne hanno fatti 7 al Tottenham, e c’era quando ne hanno fatti 4 al Chelsea e 8 al Barcellona.
Ma questo è il calcio, avrà pensato, e se nessuno fa più pazzie per te, magari la colpa è anche un po’ tua.
Il ritorno a Milano e la consacrazione definitiva
Quello che torna a Milano è un Perisic più maturo, più riflessivo, più disposto al sacrificio.
Senza battere ciglio si mette a disposizione dell’allenatore che l’aveva giubilato appena un anno prima, si sforza di dedicarsi alla fase difensiva, lavora a tutta fascia e diventa un calciatore ancora più completo.
È uno dei pilastri che riporta lo scudetto sulle maglie dell’Inter dopo undici lunghi anni e, andato via Conte, assume sempre di più le vesti del leader, dentro e fuori dal campo.
Una stagione onesta, con più alti che bassi come per tutta la squadra di Inzaghi, finisce con un crescendo inarrestabile, con prestazioni da fuoriclasse che accompagnano l’Inter nella lotta scudetto e che culminano, almeno per ora, con la serata masterclass dell’Olimpico, in cui prende per mano la squadra e la trascina alla rimonta che vale la Coppa Italia.
Altro che buon brodo, la vecchia gallina ha preparato un piatto gourmet, con un po’ di pepe nel post-partita: “Resto all’Inter? Non so, vedremo”. Fortunato chi se lo godrà ancora.
Marco Sicolo – Bgame News