Mancini, le porte aperte e la lezione di Bearzot

Roberto Mancini

Il CT Roberto Mancini è pronto a perdonare chi ha snobbato la Nazionale: tutto nasce dalla sua storia in azzurro e dalla bravata che Bearzot non gli perdonò

Più passa il tempo, più Roberto Mancini sembra la persona giusta per sedere sulla panchina della Nazionale italiana di calcio. E quella panchina sembra il posto perfetto per lui. 

Perché la storia di Mancini con l’Italia va ben oltre l’Europeo vinto da allenatore e il recente fallimento nelle qualificazioni mondiali, ma comincia addirittura 40 anni fa, alla vigilia del leggendario Mundial spagnolo. 

E nei suoi occhi questo vissuto si legge tutto, specialmente quando oggi, dopo la piccola rivincita in Nations League, garantisce che le porte della Nazionale restano aperte per tutti, anche per quei calciatori che hanno snobbato gli ultimi appuntamenti o che non hanno tenuto un comportamento impeccabile all’interno del gruppo. “A patto che chiedano scusa”, precisa.

Roberto Mancini, porte aperte in Nazionale per chi chiede scusa

Sì, anche se sembra incredibile, Roberto Mancini, alla tenera età di diciassette anni, figurava nei quaranta pre-convocati per il mondiale spagnolo, che il CT Bearzot avrebbe poi vinto, entrando nella leggenda insieme ai ventidue convocati definitivi – tra i quali il campione jesino non figurava, perché gli furono preferiti attaccanti più esperti. 

Il Mancio era solo agli albori della sua carriera, e Bearzot contava comunque su di lui per la Nazionale del futuro. Quel campionato da adolescente disputato con il Bologna, che lo aveva portato alla ribalta, gli valse l’acquisto da parte della Sampdoria, e in maglia blucerchiata continuò la sua crescita. 

Puntuale, nella primavera del 1984 arrivò la chiamata di Bearzot per una tournée in America. Un tempo giocato contro il Canada, uno contro gli USA, e la storia di Mancini in azzurro era finalmente cominciata per davvero. 

Se non che, in Nazionale ci si va da giovani, e a una serata in discoteca a New York, con i compagni dopo la partita, come si fa a rinunciare. Apriti cielo: il gruppo di azzurri si ritira in albergo alle cinque del mattino, il CT chiude un occhio sui campioni del gruppo storico, ma prende da parte il diciannovenne pupillo. 

“Il cazziatone peggiore della mia vita”, così lo avrebbe definito Mancini in un’intervista rilasciata anni dopo. Quello che aveva fatto infuriare Bearzot, si badi bene, non era tanto che il giovane talento avesse trasgredito le regole, ma il fatto che lo avesse fatto stare in pensiero, quasi come un padre, preoccupandosi per un ragazzo neanche ventenne in giro di notte a Manhattan.

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Mancini e la bravata in Nazionale che gli costò i Mondiali con Bearzot

Bearzot gli giurò quel giorno che non lo avrebbe mai più chiamato in Nazionale, e così fece. Il promettente Roberto Mancini, giovane stella ormai affermata del campionato italiano, non fu convocato nemmeno per i Mondiali in Messico del 1986. Le porte si chiusero decisamente, per lui, in definitiva. 

Ed è per questo, di sicuro, che oggi, da allenatore, parla di porte aperte per chi non ha rigato dritto finora. Ma non lo fa per reazione, attenzione. Anzi, sin dall’inizio della sua avventura da CT, aveva messo le cose in chiaro: a chi gli chiedeva come avrebbe reagito di fronte a un comportamento scorretto da parte di un suo giocatore, aveva giurato che si sarebbe comportato “come Bearzot fece con me. Perché allora ragionavo da figlio, adesso da padre”. 

E allora perché queste porte aperte? Perché c’è una postilla: “purché si chieda scusa”. E anche questa lezione viene dal suo passato. “Anni dopo – racconta – incontrai di nuovo Bearzot. Mi rimproverò. Mi disse che se solo gli avessi telefonato per chiedergli scusa  – io non lo feci per vergogna – mi avrebbe perdonato e convocato per il Messico. Volevo morire!” 

Porte aperte, allora. Perché in fondo, lo erano anche per lui.

Marco Sicolo – Bgame News