Raiolismo, o del calcio che non c’è più

Mino Raiola e Zlatan Ibrahimovic - bgame news

Qualche considerazione sulla figura dei procuratori nel calcio: commissioni, cambi di maglia e un modo tutto diverso di intendere lo sport. Cha calcio ci lascia Mino Raiola

Quando c’era di mezzo il nome di Mino Raiola in una notizia, non ci suonava mai come una bella notizia. Sarà un limite di chi scrive, ma il procuratore italo-olandese, prematuramente scomparso la settimana scorsa, era diventato talmente bravo nel suo mestiere, talmente “potente”, si può dire, che le trattative in cui era coinvolto come curatore degli interessi dei calciatori da lui assistiti parevano perdere ogni legame con l’aspetto sportivo.

Non avevano neanche più il sapore delle trattative, perché sapevi che quello che un suo calciatore decideva di fare, si avverava. E ogni trasferimento, trattandosi per lo più di grandissimi giocatori, aveva il solito codazzo di polemiche a suon di accuse di tradimento, di scarso impegno, di vendersi al dio denaro, indirizzate ai danni dei suoi calciatori.

Gli affari sono affari, il calcio al tempo di Mino Raiola

Fanno il loro mestiere i procuratori, e fanno i propri interessi i calciatori.

Ma questo mix, il campione insieme al suo agente, è la sintesi di quanto sia meno affascinante il calcio di oggi rispetto a quello di una volta.

Perché per i calciatori è un affare, prima che qualsiasi altra cosa. E come dargli torto. Chiunque di noi, a parte qualche santo, dove ci sono i soldi, lì va.

Ma che questo tolga fascino, poesia, a uno sport che sul fascino e sulla poesia ha costruito la sua storia, è un dato che non teme smentite.

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Gianni Rivera, Gaetano Scirea, andavano agli allenamenti in autobus. Oggi, a parte Arturo Vidal con la sua inseparabile Panda, è tutto uno sfilare di ragazzini che, beati loro, guidano macchinoni. E dettano condizioni.

Addirittura, abbiamo fatto l’abitudine a calciatori che, per convincere la propria società a cederli, si impegnano poco, creano problemi dal nulla durante gli allenamenti, cercano lo scontro con i dirigenti. Fino a che questi ultimi si convincono che la cessione sia il male minore.

Tutto giusto, tutte cose che nel nostro piccolo chiunque fa o potrebbe fare, nel proprio lavoro. Ma lo sport non era solo un lavoro, un affare, e se lo è diventato è anche per colpa – o per merito, dal punto di vista degli atleti – dei procuratori.

Calciatori e procuratori: in che direzione va lo sport?

Non creano empatia, ecco. A meno che uno non sia cresciuto nel mito degli yuppies anni ’80 e non aspiri a fare proprio quello nella vita, è difficile che ci si riesca ad immedesimare, o ad emozionarsi, per queste figure in giacca e cravatta, o anche in maniche di camicia, che girano tra i corridoi attorno ai campi.

Non sono parte di questo sport, e attirano sempre più al di fuori della sfera sportiva quelli che una volta erano semplici volti da figurine Panini: i calciatori.

E peggio ancora: ce li fanno apparire come cretini, come burattini, questi calciatori, che un tempo erano il nostro mito.

Cosa rimane del calcio, dell’aspetto sportivo, quando per far passare Pogba al Manchester quasi quasi prende più soldi il procuratore del calciatore?

Tanta invidia, questo è poco ma sicuro, per chi si è inventato un mestiere redditizio e lo sa fare bene. Ma anche meno affetto, meno passione per uno sport che un tempo ci conquistava con la sua semplicità.

Rimane la vaga impressione, per noi che di affari non ci capiamo niente, che ci sia qualcosa che non funziona. E che a lungo andare, piano piano, ci porterà dove sembra che tutto stia andando. In default, diciamo così.

Marco Sicolo – Bgame News