Al Roland Garros è andata in scena l’ennesima replica di un film già visto: “soffro, se vinco è un miracolo”. E vince. Dovremmo commuoverci? La 14.ma vittoria di Nadal
La vera impresa di Rafael Nadal non è quella di aver vinto 14 Roland Garros, ma di riuscire ogni volta a farla sembrare un’impresa epica, leggendaria, inaspettata.
La narrativa è sempre quella: è il più forte però sta male, non sarà facile con quell’infortunio (nel corso degli anni: al polso, al ginocchio, alla schiena, alla caviglia), anzi sarebbe proprio incredibile se vincesse anche stavolta. Poi vince, piange, si commuove, “è incredibile soltanto pochi mesi fa non sapevo se avrei potuto ancora giocare a tennis e oggi sono qui che emozione”.
Anche basta. Dopo tutti questi anni non siamo ancora in grado di dire che su terra rossa non ha rivali e che li batterebbe tutti anche su una gamba sola?
È fisicamente devastante, ha un talento come pochi altri e un’intelligenza tattica superiore, che bisogno c’è di creare questa epica del guerriero che ha tutti i pianeti contro ma a dispetto di ogni congiunzione astrale ce la mette tutta e vince? È il più forte, punto.
Nadal, un nuovo infortunio e la voglia di non mollare
Le lacrime di Nadal. Ragazzi, le lacrime di Nadal. È da quando aveva 18 anni che non se l’aspettava di vincere. Oggi ne ha vinti più di tutti, a Parigi non lo buttano giù neanche le cannonate, e ancora non se l’aspetta.
Questo è uno degli atleti più indecifrabili della storia dello sport. Tutto il mondo gli riconosce il fatto di essere un autentico fenomeno: si dice che, trasversalmente a tutti gli sport, la cosa più difficile da fare al mondo sia battere Nadal all’Open di Francia. E lui ancora non se l’aspetta.
È una narrativa sbagliata, nonché estremamente stucchevole, che non rende onore alla sua grandezza. La bella fiaba del campione che recupera dall’infortunio, torna e mazzola tutti, potrebbe essere messa su da chiunque. Per quella c’era già l’austriaco Muster negli anni ’90, che vinse a Parigi – una volta sola – dopo aver avuto un ginocchio distrutto.
Ma Nadal, lui è semplicemente qualcosa di più, qualcosa di unico, la cui statura di fuoriclasse si perde dietro questa retorica ricorrente del non ce la può fare – ce l’ha fatta, davvero degna di altri contesti.
La vittoria come frutto della sofferenza
Pure lui, alla fine, se la godrebbe di più. Lo spagnolo sembra guardare tutto attraverso la lente di ciò che rischiava di non fare e che invece è riuscito a fare. A trentasei anni, con 22 Slam in saccoccia, un’infinità di Roland Garros, una stima universalmente riconosciuta: ma goditela.
Atteggiati un po’, spadroneggia. Dice: ma è proprio quando farà così, che comincerà a perdere. Forse, o forse no. E comunque, pazienza. Dominare tanti anni, in maniera così netta, e mantenere ogni volta un profilo così basso… è un pregio, dicono, denota umiltà, concentrazione, eccetera.
Sarà, ma lo sport ha una sua allegria, una sua spensieratezza, che nel film della carriera di Nadal non si è mai percepita. Sembra un kolossal degli anni ’50, senza quei momenti di leggerezza che renderebbero il tutto più godibile, anche per l’attore.
Distruggersi e vincere come Rafael Nadal
È vero, stiamo parlando di infortuni, e magari c’è del cattivo gusto nel giudicare come uno se li gestisce.
Ma allora, c’è anche un’altra domanda. Che senso ha? Perché impostare una carriera, una vita, sulla sofferenza fisica, pur di arrivare ad ottenere qualcosa che ti sembra impossibile?
Qui parliamo di uno che ha fondato il suo gioco sullo sforzo per conferire la più estrema rotazione alle palline, che mette la potenza fisica e la resistenza alla base del suo stile, che esige dal suo corpo un risultato che gli consenta di colmare qualsiasi gap in termini di talento – ma quale gap, che ha colpi di puro polso che gli altri si sognano. Parliamo, peraltro, di uno che gioca con la sinistra e fa tutto il resto con la destra.
Quali sono stati i risultati di tutto questo lavoro? Vesciche, tendiniti, fasciature, protezioni, bende dappertutto, alle falangi, alle ginocchia, in ogni dove. Ogni volta distrutto, ogni volta l’immagine della sofferenza. Perché? Forse perché pensa che l’immagine della sconfitta sia ancora più brutta.
Ma è davvero così?
Marco Sicolo – Bgame News